C'era anche il sottosegretario alla difesa Domenico Rossi alla cerimonia sul Pasubio
C'era anche il sottosegretario alla difesa Domenico Rossi alla cerimonia che si è svolta oggi al Sacrario Militare del Pasubio a 90 anni dalla sua edificazionee e a 100 dalla Grande Guerra. Ecco l'intervento ufficiale del Sindaco Francesco Valduga.
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"Autorità civili, militari, religiose, presidente della Fondazione 3 novembre 1918, cittadini: desidero innanzi tutto portare il saluto mio personale e dell’Amministrazione comunale di Rovereto a tutti voi, e desidero ringraziarvi per aver accolto l’invito alla Commemorazione dei Caduti della Prima Guerra Mondiale, nel centenario di quello, il 1916, che forse è stato il più cruento degli anni della Grande Guerra, almeno in questo territorio, almeno su queste montagne.
Sappiamo infatti che, su questa linea di confine, il nemico si trovava a pochi metri, a tiro di sasso potremmo dire, praticamente faccia a faccia. Lo scontro fu corpo a corpo. Uomo contro uomo.
Essere qui a ricordare, oltre a questo centenario della Grande Guerra, i 90 anni dall’edificazione del Sacrario Militare del Pasubio, non può (e non deve) essere soltanto un omaggio, peraltro doveroso, alla memoria di tanti giovani caduti in battaglia. Deve essere occasione per meditare “sulle cose della vita” in un tempo come il nostro, purtroppo ancora attraversato, appena al di fuori dei nostri confini, da guerre e conflitti e la commemorazione deve farsi pensiero per il futuro, deve diventare occasione concreta di costruzione di pace, perchè la pace non è, lo constatiamo appunto tutti i giorni, un diritto acquisito. Può però forse essere conquistata in maniera più solida e duratura se diventa il frutto di un percorso culturale che è prima di tutto individuale e che contaminando per contiguità l’altro, il prossimo, si fa processo collettivo, diritto di popolo, diritto dei popoli. Un percorso di questo tipo esige però esempi, punti di riferimento alti, testimoni di quella capacità di agire, di sentirsi in moto per un bene supremo e comune, alla conquista di un sogno non personale, ma collettivo, pronti, risoluti a determinare un destino di comunità che comprende ed eterna il destino individuale. Recentemente il nostro Consiglio Comunale si è riunito per commemorare il centenario del sacrificio di Damiano Chiesa che, pur nei suoi 22 anni, sembra andare incontro alla morte con una, quantomeno apparente serenità, o comunque capacità di trasmettere serenità, figlia della convinzione di aver speso per una causa giusta il suo breve tempo. E questo ci porta a dire che nessuna vita, per quanto breve, è sprecata se vissuta nel dono di sé.
Ed è proprio meditando poi sul nostro incontro qui, sul Colle Bellavista, da dove i soldati italiani potevano, grazie all’altura, avere una visuale sul nemico per studiarne le mosse, che viene spontaneo pensare alle tante brevi vite, che qui riposano dopo essere state spinte fino a qui in quella tragica lotta che contrappone l’uomo al suo simile, dopo essere state spinte verso lo strazio della guerra, che è sì strazio dell’ambiente fisico, ma soprattutto, parafrasando Ungaretti, strazio di cuori.
In un luogo ed in un tempo in cui risulta difficile, ma non impossibile, mantenere la dignità e la nobiltà che dovrebbero essere proprie dell’essere umano. E, da questo punto di vista, riflettendo sugli stati d’animo di chi è in battaglia, mi è tornata alla mente una storia vera, vissuta su questa montagna, narrata in uno dei suoi libri dall’ amico Remo Bussolon, insegnante, appassionato di storia locale, per tanti anni sindaco della Vallarsa, purtroppo mancato recentemente (nel marzo scorso ed è anche proprio per questo che mi piace ricordarlo). L’episodio è quello di un soldato italiano, piacentino, che avanzando lungo la linea di confine, si trova improvvisamente di fronte ad un soldato austriaco con il fucile spianato. Uno scambio di sguardi intensi, fatto di terrore da un lato, di potenza dall’altro: l’italiano che si sente ormai al cospetto della morte e l’austriaco che può decidere della vita dell’uomo di fronte a lui. Ma il soldato nemico si guarda intorno, capisce che nessuno li ha visti o li sta osservando, e con un cenno fa capire all’italiano di allontanarsi, risparmiandolo. Anzi, mentre lo guarda allontanarsi incredulo, gli sussurra un “Ciao, italiano!”.
Ma è il secondo tempo di questa storia a renderla ancora più intensa. Qualche tempo dopo infatti, il soldato italiano si trova nuovamente al cospetto del soldato austriaco che lo aveva graziato, rinvenendolo però purtroppo moribondo, caduto sul campo di battaglia, senza più la possibilità di salvarlo. Non gli è consentito compiere, ricambiare un gesto che lo restituisca alla vita, l’irreparabile si è, di fatto, già compiuto. E così nasce un gesto di “pietas” e di condivisione che non si spezzerà più nel tempo e che lo porterà a ritornare da Piacenza sulla montagna, ogni anno, per tutta la vita, a ricordare il soldato dell’esercito nemico che l’aveva risparmiato.
Se andiamo al fondo di questo incontro capiamo anzitutto una cosa e cioè che l’uomo, preso individualmente, non è fatto per la guerra. E’ capace di superare ostacoli che popoli e governanti non sono in grado di risolvere se non dopo trattati ed estenuanti trattative. E’ capace di risolvere a favore della vita anche quelle situazioni che sembrerebbero a prima vista propendere solo per l’unica soluzione del momento: la morte, di cui la guerra è fedele ancella.
In questi due uomini che tra loro hanno saputo far prevalere, sia pur nei brevi istanti del loro inatteso e drammatico incontro, la scelta per la vita, il perdono, la comprensione e quindi la reciproca pietà, vediamo la possibilità, che ogni uomo tiene nelle proprie mani, di far prevalere la volontà di restare umani, rispetto a qualsiasi altra ragione.
Dal racconto di questa storia, comprendiamo come la pace sia la soluzione che ogni uomo ha a portata di mano, ed è quindi proprio nella memoria di tanti episodi di guerra che possiamo trovare le motivazioni per parlare di pace superando la retorica, per far valere quei sentimenti che ci rendono uomini e che, se mantenuti vivi, ci consentono, appunto, di restare umani.
L’uomo è un animale sociale, gli uomini sono stati creati per stare insieme e quando cedono alla guerra viene da chiedersi dove sia Dio, se esista un Dio, domanda che poi rimanda al quesito su dove sia l’uomo.
Ma Dio abita nell’uomo, se l’uomo, pur nello strazio della guerra resta capace di mantenere vivo il cuore, di gettare gli occhi nell’altro e di amarlo.
C’è molto di eroico in tutto questo, nella capacità di fare in modo che il cuore resti vivo, nonostante tutto.
Brecht ammoniva “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, ma noi siamo (purtroppo potremmo dire) ancora assetati di alti esempi. Ne abbiamo bisogno per affrontare questi tempi e per non dubitare che al nostro futuro si possa dare la chance della Pace, di una Pace mantenuta nel tempo, duratura.
Salire qui, visitare questo Sacrario Militare, significa risvegliare quella certezza che ci porta a dire che ciascuno dei Caduti che qui riposa fu certamente uomo che, pur in guerra, anelava unicamente alla pace. Uomini capaci di gettare lo sguardo nell’altro, ancora capaci di amore perché capaci di pietà.
E anche osservando l’umanità oggi qui espressa, le Associazioni Combattentistiche d’Arma, tra le Bandiere e i Gonfaloni dei Comuni decorati al Valor Militare, la speranza è che ognuno di noi, qui presenti, senta in cuor proprio che non è mai rituale o privo di significato compiere un tributo e rendere onori ai caduti e deporre sulle loro tombe corone d’alloro.
Pensando all'omaggio col quale l’italiano commemorava il soldato nemico, sentiamoci tutti potenzialmente capaci, e tutti potenzialmente chiamati, a compiere i nostri intimi e più difficili gesti di pace, nei nostri piccoli o grandi conflitti quotidiani, come nelle grandi questioni che possono sorgere tra i popoli.
Alla fine, se ci pensiamo, l’uomo ha avuto la prova, pur di fronte a tanti errori, che, per dirla con Ermanno Olmi, i prati sono tornati, che il paesaggio del nostro territorio, in questi 70 anni di pace, si è ricomposto e cicatrizzato e che, come dice Ungaretti nella sua poesia Stelle, è ritornato “scintillamento nuovo”.
E tuttavia necessitiamo di ricordare perché nel nostro quotidiano non venga mai meno l’imperativo categorico: non basta essere uomini, bisogna anzitutto saper restare umani. Capaci di pace, desiderosi di realizzarla.
Anche perché come recitano le parole di Pio XII, iscritte nel basso rilievo che orna la Campana dei Caduti, ora appunto Campana della Pace, simbolo della città che ho l’onore di rappresentare, “nulla è perduto con la Pace, tutto può essere perduto con la Guerra”.
Francesco Valduga
Sindaco
Valli del Pasubio 26.6.2016